Di Laura Satta
Non è una vendetta, ma un ricatto infame.
Thomas Mann faceva dire al cavaliere d’industria Felix Krull che “gli angeli nel cielo parlano italiano” ma in questo paese, che vanta un tal meraviglioso idioma, gli anglicismi, non si sa perché, purtroppo vanno per la maggiore, perfino – per accostamento – nel codice penale (fatto ancor più grave). Così, la parola inglese “revenge”, unitamente alla parola “porn”, diviene nel vulgo il titolo di una nuova fattispecie penale, letteralmente: la “pornovendetta”. Ma in italiano, quali sono il significato e l’etimologia di “vendetta”? La vendetta è una pena inflitta privatamente a un offensore come soddisfazione di un’offesa ricevuta; un giusto castigo, una giusta punizione, quasi una legittima difesa. Etimologicamente deriva dal latino “vindicta”, cioè la verga con cui si toccava lo schiavo che doveva essere posto in libertà, da qui “rivendicazione, liberazione, pretendere, rivendicare”.
La vendetta presuppone, a monte, un torto subito e dunque una qualche responsabilità della vittima; magari ha interrotto la relazione, forse lo ha tradito, oppure non è stata abbastanza sottomessa e amorevole. Insomma, dai. Un po’ se l’è cercata…
Questo è il messaggio pronto per essere trasmesso e viaggiare nelle menti: la vittima, soprattutto se donna, non è mai innocente. Questa narrazione è colpevolmente sbagliata e noi la possiamo cambiare, a partire dalle parole. Usiamo quelle giuste: parliamo di ricatto sessuale, parliamo di violenza sessuale virtuale.
I punti deboli della legge
Il reato è stato introdotto nel nostro ordinamento dalla Legge n. 69 del 2019 e collocato all’art. 612 ter del codice penale, subito dopo il 612 bis, i celeberrimi atti persecutori. Il vero nome della norma incriminatrice è “diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti” – volgarmente conosciuta da tutti come “revenge porn”, appunto. È stato collocato tra i delitti contro la libertà morale della persona intesa come libertà di autodeterminazione del soggetto, costituzionalmente tutelata dall’art. 13 della Costituzione.
Questo è il testo dell’articolo: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, T è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 5.000 a euro 15.000”.
Chi possiede il materiale video può essere incriminato in funzione dell’uso che ne fa: inviare e/o consegnare ad altri, cedere, pubblicare, condividere o diffondere, il tutto senza il consenso delle persone che del video fanno parte. Stessa sorte per chi riceve il materiale di cui sopra e compie di nuovo, a sua volta, le medesime azioni: diffusione, invio, consegna ad altri.
L’inserimento nel reato dell’obiettivo di “creare un danno” alle persone presenti nel video sessualmente esplicito, rende assai limitativa la portata della punibilità, perché se è più facile che chi, per primo, diffonde il video per fare del male alla persona con cui eventualmente ha un legame, è anche molto probabile che chi diffonde e “fa girare” il materiale per secondo, per terzo, quarto e così via, si possa avvalere di giustificazioni ben diverse, in eventuale assenza di contatti e conoscenza diretta con la persona offesa (“ho diffuso il video perché volevo farmi quattro risate con i miei amici”; “non conosco le persone che ci sono nel video e pensavo fosse un porno amatoriale”; “l’ho fatto per gioco” ecc. ecc.). Problematica anche la dimostrazione dell’assenza di un consenso della vittima alla diffusione del materiale privato – consenso che, qualora sussista, farebbe venir meno il reato.
Pene (in)adeguate
L’aggiunta di questo crimine nel nostro codice penale è una delle tante occasioni perdute a cui siamo tristemente abituati in Italia.
Al reato, infatti, al pari della violenza sessuale e di altri gravi delitti, è stata attribuita una procedibilità a querela di parte e non una procedibilità d’ufficio. Un reato procedibile d’ufficio è un reato per cui lo Stato reputa di procedere indipendentemente dalla volontà della vittima, anche se quest’ultima decide di non sporgere querela e perfino se la stessa non vuole che si proceda nei confronti dell’ipotetico colpevole. Ovviamente i reati procedibili d’ufficio sono reati particolarmente gravi e che destano un certo allarme sociale.
Ebbene, rovinare qualcuno pubblicando un video sulla rete (video che molto probabilmente continuerà a circolare senza limiti) che lo ritrae in atteggiamenti molto intimi, evidentemente non è stato ritenuto grave a sufficienza, e si è deciso di lasciare nelle mani della vittima (il soggetto debole) la responsabilità integrale di dare il via alla notizia di reato. Se la persona offesa decide di non parlarne e subisce in silenzio, arrivando addirittura a decidere di smettere di vivere per la vergogna, per lo Stato è accettabile e l’autore della cosiddetta “pornovendetta” non incorrerà in alcuna punizione, perché l’ordinamento non lo prevede.
Tutto a posto. Similmente, come per la violenza sessuale (il cui termine è stato ora innalzato a un anno), il termine per proporre la querela è innalzato a sei mesi, anziché i normali tre mesi: un lasso temporale ancora decisamente insufficiente, per tanti motivi; lo era prima per la violenza sessuale e lo è adesso per il reato ex art. 612 ter c.p. Da ultimo, si sottolinea come questo reato non sia ricompreso. nel cosiddetto “Codice Rosso”, che prevede che la persona offesa da alcuni reati (maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale, atti persecutori ecc.) sia sentita obbligatoriamente dal Pubblico Ministero entro tre giorni dal deposito della querela (obbligo che, comunque, nella prassi delle Procure è quasi sempre delegato ad altri e dove il termine dei tre giorni per l’audizione semplicemente è una chimera). Ovviamente, l’aspetto più importante a livello “cautelare”, ossia l’urgenza dell’oscuramento dei video pornografici diffusi sulle piattaforme social, non è stato trattato e non sono state pensate misure adeguate in tal senso, vanificando la funzione protettiva nei confronti della vittima. In Germania, ad esempio, hanno inserito una responsabilità di tipo amministrativo per le piattaforme ove questi video vengono caricati e diffusi. Chiarito che la norma, così come è stata pensata e strutturata, servirà a poco, ci si chiede che tipo di strumenti difensivi, in alternativa, si possono auspicare.
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In privato…
Ritengo che, allo stato, la prevenzione e un’adeguata educazione sessuale finalizzata al rispetto di sé e dell’altro siano le uniche armi non spuntate.
• Rifiutare sempre di girare video (o scattare foto) a contenuto intimo con il proprio partner, anche se è un partner decennale, anche se ci si fida ciecamente e anche se la cosa è vista sottoforma di gioco erotico di coppia.
• Non cedere, per nessun motivo, alle richieste di invio di fotografie e video in posizioni o situazioni private da parte del partner o da parte di qualcuno con cui ci si frequenta.
• In caso di relazioni occasionali, i rapporti sessuali o le situazioni intime che avvengono in luogo neutro per entrambi sono teoricamente più “sicuri” rispetto alla casa di uno dei due, soprattutto se lo si conosce poco e la persona in questione potrebbe avere dispositivi di registrazione installati presso l’abitazione (o sull’auto), anche in modo occulto.
• Proteggere tutti i propri dispositivi informatici con password sicure, che devono essere cambiate regolarmente e che non devono essere mai comunicate ad altri; mantenere i contenuti caricati nei propri social, anche se non proprio intimi o erotici, il più possibile privati e accessibili solo a una ristretta cerchia di amicizie.
• Anche in caso di videochat non accettare mai di mostrarsi nudi o parzialmente nudi o in situazioni intime, perché anche durante una videochat c’è la possibilità che l’altro stia registrando. Più generalmente, usare la testa e il buon senso.
Agire con tempestività
Ma se la persona scopre, invece, che il peggio è già accaduto? Quali rimedi può adottare?
Per prima cosa consiglio di annotare immediatamente i riferimenti della pagina internet o del canale informatico dove si scopre il materiale video/foto che ritrae in atteggiamenti intimi; salvare immediatamente il materiale stesso così come compare sulla pagina, sul social o sull’applicazione, ad esempio facendo degli screenshot. Con quanto si riesce a stampare o salvare su chiavetta (documenti importanti che possono divenire fonti di prova), recarsi con la massima urgenza da un avvocato che si occupi effettivamente di penale e che sia esperto nella difesa di vittime di reati di questo tipo. Contestualmente, senza aspettare il trascorrere dei giorni, con la massima tempestività, depositare – o ancora meglio far depositare all’avvocato scelto – una querela, il più dettagliata possibile, presso Carabinieri o Polizia di Stato, sottolineando l’urgenza e il particolare tipo di reato per il quale si chiede di procedere. La vergogna e l’imbarazzo vanno completamente messi da parte e bisogna limitare i danni che l’attendere oltre comporterebbe. Scrivere, attraverso i canali predisposti, al gestore del social o della app per chiedere la rimozione o l’oscuramento del video e/o delle immagini in questione. Se pensate di poter risolvere da soli questo problema, vi sbagliate.
I numeri della violenza online
Concludo l’articolo menzionando dei dati statistici che faranno riflettere molto.
Secondo una ricerca svolta da Cyber Civil Right Initiative, il 93% delle vittime di questo tipo di ricatto sessuale ha dichiarato di avere vissuto un forte stress a livello emotivo e psicologico, l’82% ha sofferto danni in termini sociali e occupazionali, il 34% ha assistito alla compromissione delle proprie relazioni familiari, il 38% di quelle amicali e il 13% di quelle sentimentali, il 49% ha dichiarato di aver subito molestie online da utenti che avevano avuto accesso al loro materiale privato. Infatti, questo crimine spesso è commesso allegando una dettagliata documentazione riguardante la vittima. Così, il 59% delle vittime ha assistito alla condivisione del proprio nome completo, il 26% del proprio indirizzo e-mail, il 16% del proprio indirizzo di residenza e il 20% del proprio numero di cellulare.
Per quanto concerne i minorenni, i dati che li riguardano sono ancora più preoccupanti, anche a causa del crescente uso del sexting (sex+testing, ovvero invio di messaggi, foto e testi sessualmente espliciti). Uno studio condotto nel 2018 dall’American Medical Association ha stimato che su 110.380 partecipanti minorenni, rispettivamente il 14,8% e il 27,4% di questi aveva inviato o ricevuto sexts. Inoltre, il 12% aveva inoltrato almeno uno di questi sext senza consenso. In molti casi, i minori che hanno inviato le loro foto sono stati costretti o hanno ricevuto forti pressioni in tal senso. In base ad un’indagine condotta dal Massachusetts Aggression Reduction Center, al 58% degli intervistati è capitato di ricevere pressioni per inviare sexts. La maggior parte delle volte questi episodi sono avvenuti nell’ambito di rapporti stretti. In ultima analisi, un suggerimento finale potrebbe essere quello di controllare, costantemente, tutti i social e i telefonini dei vostri figli adolescenti e vigilare sulla loro fragile incolumità emotiva.